25 aprile 2024.

Per me ogni giorno è il 25 aprile.
E tutti quelli che lo rendono divisivo sono motivo di una nuova pagina di calendario come questa.

E per ricordare questo giorno, mi sono tornate in mente le parole che scrissi 5 anni fa in un luogo non mio, lontano dalla mia terra, dalle mie radici, dalla mia famiglia.
Le lascio qui perché ogni volta che ascolto un subumano chiosare su questa giornata quel grassetto rosso su quella data aumenta di dimensione.

C’è qualcosa che mi accomuna a tanti altri stamattina.
Accade quasi nello stesso momento, a migliaia di km di distanza. C’è una similitudine che mi entra dentro e mi travolge e che, mentre qui il sole sorge, scava nella mente, fra pensieri che si contorcono, s’avvinghiano e vengono travasati, come un fiume in piena, dentro al cuore.
Questa similitudine mi fa dannare, mi porta via, apre un sipario di emozioni fra cui la rabbia, ai ricordi, a quello che ho visto e vissuto e a quello che vedo e che accade. Una similitudine separata dallo spazio, fra qui e casa mia, si, quella che io chiamo casa e che ho giurato di servire.
Perché stamani non è un giorno come tanti.
E’ un giorno che ha un significato particolare per me ma dovrebbe avere lo stesso significato per tanti altri. Per una serie di motivi, adesso che sono lontano, questo evento è ancora più importante, più profondo e al netto di tutta la retorica possibile è qualcosa che, dal momento in cui non sento più la “mia terra” sotto le scarpe, fa si che quella terra così lontana entri prepotente nel cuore e si faccia bramare ogni giorno con maggior vigore.
Il caso vuole che oggi è un giorno particolare anche per altri e rispondendo ad un invito di una comunità intera, stamani mi sono svegliato alle 4, ho preso la mia divisa migliore, quella con tutte le medaglie colorate, ho preso una camicia profumata di lavatrice e stirata ad arte da mia moglie, ho annodato la cravatta con cura, ho lucidato le mie scarpe e dopo la barba, fatta alla perfezione, alle 5 di mattina mi sono trovato al Veteran Park di questa comunità.
Era buio, gli uccelli fra gli alberi iniziavano appena a fischiare e a chiamarsi, fra fronde scure e rami nascosti, sopra lapidi illuminate da poche luci e nessuna candela. Un posto che strugge già di suo, coi nomi, le bandiere, i ricordi.
Le 5 di mattina, oggi, ovunque nel mondo, in ogni posto dove esistono australiani e neozelandesi, delle persone si ritrovano per celebrare l’ANZAC Dawn Service, la commemorazione dell’alba. Avviene ogni anno, per rendere onore ai circa 14 mila morti del contingente Australiano e Neo Zelandese a Gallipoli, in Turchia, durante la prima guerra mondiale. Una cosa successa 104 anni orsono. 104 anni fa. E sono ancora qui a rendergli onore.
Mi sono trovato nel silenzio, con altri uomini, fra donne e bambini addormentati nei carrozzini, C’erano altre divise, da tutto il mondo, c’erano veterani, anziani con i cappellini e le loro mogli, le autorità, i capi. Non c’erano fanfare, c’erano caffè che fumavano vicino alle sedie e biscotti. Si è reso onore ai caduti e lo si è fatto celebrando quello che hanno permesso, quello che hanno contribuito a costruire.
Sostanzialmente si è celebrata una Patria. Che sia qui o lontana migliaia di chilometri poco importa.
Quello è il senso.
Chi muore, chi serve ed ha servito, chi ne ha fatto parte, chi ha lottato e ha garantito e garantisce la libertà di altri. Magari non si vede ed è brutto da dire, specie se si collega a termini come guerra, conflitto, battaglia ma l’umanità ha diversi difetti e la guerra, forse uno dei peggiori.
Nel mentre noi, oggi, dall’altra parte dell’oceano, ricordiamo la Liberazione avvenuta 74 anni fa. O almeno questo dovremmo. Perché se ne parla da giorni come fosse una nuova guerra ideologica, come a schernire o a ritrattare ciò che è stato. 74 anni fa. Da una decina d’anni ne discutiamo ormai. Da quando sulla “ragione” è sceso un lenzuolo scuro, che non fa passare più luce.
104 anni fa contro 74.
E mentre suona il silenzio, in questo palco verde che è costruito su un giorno che pian piano si dilata, mentre il cielo si colora di arancione, vedo la moglie di un anziano reduce, di fronte a me, che prende un braccio e lo passa sulla spalla del marito, e lui che lentamente china la testa. E la mano, nodosa, della donna che lo stringe più forte, a creare nuove grinze su una giacca stirata.
Mentre quel gesto attraversa i miei occhi e la musica di quella tromba perfora le mie orecchie, il mio cuore si apre alla memoria. Quella stronza, da lassù, in cima al mio corpo, inizia ad inviargli immagini, sorrisi, abbracci, visi, momenti, tutte cose che poi si mischiano con fiori sulle bare, coi sacchi neri dentro l’elicottero e le notti passate a fumare sotto un cielo distratto da altre preghiere.
Ho ricordato quelli che non sono più tornati, quelli che ho salutato, ho visto le facce sporche, la fatica, il silenzio, la paura, la fratellanza nascosta dietro ordini e pacche sulle spalle.
Ho ricordato la voce di quel vecchino a Caprarola, entrato mentre celebravamo il funerale di un soldato morto in Afghanistan. Mi ricordo quello che scrissi: “Un vecchio signore si appoggia ad un bastone, fa fatica a camminare, è magrissimo e curvo su se stesso. Nonostante tutto si avvicina alla bara, ci si inginocchia davanti fra mille fatiche e con la stessa difficoltà si rialza per poi voltarsi verso i parenti. Non riesce a modulare il volume della sua voce e nel silenzio irreale risuona come un pugno in faccia la sua voce che dice “facemose coraggio..” e mentre lo guardo andar via, sento il caldo delle lacrime che mi bagna il viso.
Come Caprarola, come quella chiesa, che si chiamava Madonna della Consolazione e che è la stessa in cui mi sono sposato, una lacrima mi è scappata.
Non sono riuscito a trattenerla, è uscita, testarda, impudica, nonostante la volessi tenere nascosta, dentro, inclusa e reclusa tra le mie palpebre. Questa fottutissima lacrima. L’ho sentita scendere sulla guancia pulita, mentre salutavo con la mano sulla fronte.
È caduta sul bavero della giacca. Una sola.
Mi ha macchiato la divisa! La divisa che serve per onorare chi ha creato “terra”.
E mentre la cerimonia si allungava ho sperato che il liquido salato si asciugasse, un po’ per vergogna, un po’ perché sembrava un segno di un uccello impertinente e un po’ perché quello che si celebrava non era comunque mio e sarebbe stato difficile spiegare l’emozione che provavo.
Eppure c’era, era salita dentro, aveva corso lungo la mia schiena, aveva fatto pizzicare il naso.
Perché quel suono, quella tromba, quell’abbraccio sotto l’alba che si solleva, hanno fatto da contraltare alle polemiche che ho letto, agli uomini di stato, ma verrebbe da dire di Patria, che chiosano di storia e propaganda, senza conoscere il senso, vero, assoluto che c’è dietro un evento che fa della memoria un accenditore per rimanere uniti.
Rimanere uniti. Invece divide.
Senza conoscere quello che si prova mentre vedi un tuo collega riverso, con la bocca spalancata che cerca di braccare l’aria che dovrebbe sostenergli la vita mentre questa se n’è già andata.
Perché se lo provi, poi, non potrai più dimenticare.
Quella lacrima era rabbia, non era dolore.
Ho pensato a quelli che rinnegano questo giorno.
Il 25 aprile serve per coltivare la memoria e ringraziare chi ha combattuto con la propria vita, per donarci la Libertà e magari, una “Terra”. E finché ne parlerete come un derby da vincere, noi “TERRA” non ne possederemo più.
Come la libertà.
Quella stessa Libertà di cui oggi beneficiano, gratuitamente anche quelli che ci insultano su un social o magari in una cerimonia di una città qualsiasi, dove ti dicono che uccidi più degli assassini. Ecco, a quelli, io farei provare un pò di sabbia fra i denti e un compagno che spira lontano da casa.
Buon 25 aprile.
Sotto una bandiera.
Una sola.

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