Venerdì

Ho terminato la mia settimana, da tempo composta di 5 lunedì, correndo verso una stazione affollata, con le tende canadesi dei disperati là fuori, con gli autisti con le cravatte ad aspettare, su macchine che lucidano, i manager che li guarderanno con sufficienza.

Ci sono arrivato fra gli hotel dei turisti e feci umane sulla strada, tra gente che dorme sui marciapiedi e negli anfratti, che si sveglia quando tu vai via, e materassi buttati sotto i portici, dove una volta c’erano le farmacie, fra giapponesi con le birkenstok che seguono i percorsi dei telefoni, senza sapere cosa quei telefoni gli faranno attraversare.

Ho finito la mia settimana con un treno in ritardo di 55 minuti su 40 minuti di viaggio. Sono arrivato in una piccola stazione dove i pendolari, una volta scesi, corrono verso il parcheggio per evitare di rimanere in fila ad un incrocio, da cui dipendono 15 minuti ulteriori da buttare, nel computo della giornata.

Una vita buttata da sveglie prima dell’alba, da ciotole col riso e zucchine da mangiare al rientro, su dei treni logori, puzzolenti, con i vetri che scoppiano come le orecchie, quando incontrano altri treni. Treni con al gente che suda, mangia, bestemmia, dorme.

Ho terminato la mia settimana leggendo un libro che parla di ragazzi, con un ragazzo accanto, sbirciando il suo di libro. Un libro sempre acceso, anche nelle gallerie, che si sfoglia con le dita, dove se una pagina non ti piace aspetti un secondo e la giri, un libro che mostra immagini di lolite che ti insegnano ad evidenziare le tette, il culo, la bocca, in una nazione che di donne ne uccide una ogni tre giorni.

Un libro sempre acceso su un mondo che chi comanda disprezza e paga, per tenerlo sempre acceso con una luce che droga più del simbolo della marijuana sulle magliette, per cui un parlamentare chiede il carcere. Un libro che si ricarica anche sul treno dove quando ti fermi con le dita trovi una ragazza che non vedrai mai che ti dice che per esser giusta devi cambiare colore di canotta secondo il tono del cielo, che ti dice di far debiti per degli abiti che non ti servono e che poi che finiscono sotto un cielo, sempre azzurro, nel deserto del Cile.

Ho finito la mia settimana e ho iniziato il rito di quei due giorni che passo schifando l’umanità, in questo mondo al contrario dove vincono i ladri, gli evasori, dove si preferiscono malviventi che trainano consenso, dove se urli per il futuro sei tu il delinquente e dove chi voti ti tradisce sempre.

Ho camminato stamani, cercando il silenzio e invece ho incontrato il rumore di macchine lucide ed imponenti con buzzurri al telefono e la polo col bavero alzato. Ho schivato moto tedesche fiammanti, piene di bauletti quadrati e caschi coi microfoni, ho incontrato paglia, pattume e illegalità.

Ho camminato cercando di non guardare, provando ad arrivare il prima possibile ai miei due soliti appuntamenti. Da mia madre il primo, a chiacchierare del suo tempo, a fregargli un biscotto e a cazziarla per le troppe piante.
Poi verso l’albero.
Un albero di tiglio, profumato, dietro un cartello storto di divieto di sosta.
Un albero che stamani era pieno di vita, di api che cercavano nettare, profumato, ombroso, un albero invece in cui la vita di mio padre è andata via in un ferragosto ormai lontano.
Quell’albero è il posto dove mi fermo ogni settimana.
Mi fermo pochi secondi, a chiedere cose, sperando mi risponda, come fosse lì ancora per una volta, solo una volta.
Un albero a cui chiedo ogni volta, come se fosse lì, se avesse creduto davvero in quello che mi ha insegnato.
Perché a guardare tutto quello che c’è intorno, io non trovo più una spiegazione a quest’inverno della ragione.

Poi torno. Cercando di ricordare quando mi chiamava “cocco” e cercando di cancellare l’immagine dell’auto con il lenzuolo bianco sopra.
Torno.
Prima in me.
Poi a casa.
Torno per cercare di usare il tempo che rimane, che un ragionier Calboni ha rovinato per sempre, prima del prossimo lunedì.
Torno, cercando di godermi l’alba, le api, un orto piccolissimo e un tramonto con chi riesce ancora a sopportarmi.

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